Titolo dell’opera (stile “titolo 1”)

MUTTOSPrimaveraCuori lontaniCuori lontaniSaluto dal CampidanoIl mietitoreIl violentoLa luna neraSposaLa portatrice d’acquaLa surbileIl banditoIl nomadeLa madreSan FrancescoGonareNovembreAprileIl falcoL’aquilaAuguraleIl cacciatoreNuoro d’invernoA VindicinoAll’amataStella L’AUTOMOBILE PASSAIl villaggioLo stazzoLa tancaLa bardanaIl poeta Tre primavereEmigrantiNinnananna di VindiceIl palo telegrafico Epitalamio barbaricinoEglogaIl padreLa madre di OrgòsoloCani da battagliaPiccolo giamboLa scuola di ChilivàniL’aquilastroMurrazzànuOrthobèneLa spia Gonari, il monte, avea la benda oscura,E Lia fuggì col suo nato innocente.
L’accompagnò la rabbia di sua madre,La maledizione di suo padre,Il riso e la bestemmia della gente:Ma Lia si strinse al cuor la creatura, E andò col suo peccato. Gli aratoriAravano sereni al piano e al monte;Incitavano i buoi: Boe montadì!Dal piano rispondean: Boe porporì!E nella rosea sera l’orizzontePalpitava di mugghi e di clamori.
— Uomini santi, la pietà d’un pane,Ché non ha latte il cuoricino mio:Pietà, uomini santi! — Ahi! che i bottoliL’azzannaro, i fanciulli pe’ viottoliLa rincorsero, e gli uomini: Che DioTi salvi! mormoraron, le lontane Figlie pensando, e aperta la bisacciaPresso il fuoco, con l’olio dell’olivoTinsero i pani d’orzo per la cena.
Ed ella se ne andò con la sua pena,Riscaldando quel suo redo mal vivoCol pianto che rigavale la faccia.
E cammina cammina, ecco le mandre,Ecco i pastori vestiti di pelliE fiamma, coi fucili e il manto nero:E tanche inseminate e nel misteroDel salto, stazzi fumidi ed agnelli,E cani e greggi e voli di calandre.
Lia pregò: Miei pastori, sono solaSu questa terra: mi è fuggito il lattePel patimento, e questo pegno fidoÈ come implume caduto dal nido,Né so nutrirlo, ché ho le membra sfatteDal pianto. Son la cenere che vola.
Oh datemi ristoro, cristiani,D’un po’ di latte, un sorso appena, un sorsoPer imboccare questo piccolino.
E se ciò non potete, ah! che il piccinoSucchi almen dalla pecora che il dorsoHa spelato, ed è bolsa, o mandriani. — Bofonchiaron gli anziani, i principali:— Costei è figlia del demonio, e ci haIl malocchio che fa intristire i branchi:Andiamo! — E dietro ai greggi neri e bianchiSparvero nella luminositàDel mattino, coi lunghi pastorali.
E cammina cammina, ecco il villaggio,Un abituro un uscio il focolare:Presso la mola una giumenta scioltaE redata, e una vecchia. — Se Dio moltaPace vi dia, pregò dal limitareLa mesta, cui brillava in cuore un raggio, Fate ch’io possa munger la giumentaPer allattare questa malfatataCreatura del mio seno. — Oh via, peccatoMortale! — Ardea per tutto il vicinatoL’allegria del vin novo, e un’aura grataSalia dei sanguinacci con la menta.
Andò per la montagna. Era la sera.
Il monte di Gonari avea il cappottoBigio. Tremava nel silenzio il boscoDelle quercie, aspettando dal ciel foscoLa neve: intorno altre montagne e sotto,Coi lentischi e col fiume, la brughiera.
Tornavano i pastori sui ronziniCon gli agnelli all’arcione; i fanciulletti,Passeri stormeggianti, dalle siepiCogliean le bacche rosse pe’ presepi;Tornavan gli aratori, e nei boschettiAccendevano i fuochi gli scorzini.
La neve venne a notte: cielo e terraSi confuser fra loro, e forre e selveMiagolaron al vento, al rude ventoChe corre tutta l’Isola, lamento,Pianto di mari d’uomini di belve.
E Lia, la madre, sola, fra la guerra Della terra e del cielo, aveva il ploro:Un singulto di allodola ferita.
Cercò il dirupo — o mamma o mamma o mamma! —Pur riscaldando con l’ultima fiammaDi quella anima sua, della sua vita,Il suo nato innocente, il suo tesoro.
Sospiri della macchia, alto uno scoppioSalì di gioja: un volo di colombeSui risonanti vanni, e suoni e rombeE squilli vivi di campane, il doppioDi Natale, un immenso osanna ai cieli.
Ancora supplicò: — Vergine, giglioDel cielo, in questa notte senza pene,Voi allattaste il bambino Gesù;Pietà, nostra Signora, io non ho piùUna goccia di sangue nelle venePer allattare l’innocente figlio Del mio peccato! — Simili a violeRifiorironle i seni, e caldo e pienoIl latte le salì. Con l’arancinoManto, dal mare si levò il mattino,E rise il sole: e dall’amato senoRise a sua madre il bambinello e al sole.
Non veglie allegre, sardo focolare,Alla tua fiamma, ma pensose fronti:Il padre antico, l’ospite che ai fontiLontani beve, e prega nell’entrare.
E la madre che al ciel crepuscolarePiù ripensa gli erranti, mentre ai montiFa vento, e vanno i figli con i prontiMastini dietro i branchi a vigilare.
Siedono intorno: invan soffian severeLe Sùrbili, ché brilla l’animosaRidente fiamma ai mesti in ogni sorte.
E brillerà perpetua fin che in nereE gialle bende, bianca e sanguinosa,Batta alle soglie fumide la Morte.
IL PRESENTEPer le nozze di Emilio Sechi Come quelli di Fonni che governanoGreggie di agnelle innumeri:O se pur fossi come quel chiomatoPatriarca d’Orgòsolo, padroneDi cento armati servi,Che nell’ottobre chiaro, quando scendeDal suo bel Sangiovanni al Tirso e al mare,Con le sue mandre, — giovanil coronaGli fanno i maschi figli —Campeggia tutta l’Isola,E l’urlìo dei mastiniE degli agnelli il tremulo belìo,Copre il sonante fremito del mare.
Se pari a questi fossi, amico mio,Ecco, direi, ai miei servi pastori,Nove carri di lana caricate,Di lana matricina,Di quella bianca e pura come il fioreDel mandorlo, e tre velliDi montone, pur essi, molli e candidi,Come d’aprile i cumuli,E andate dall’amico del mio core,E ditegli: L’amico tuo, devotoAl buon costume antico,Ti manda questa lana e questi velli.
La lana per la rocca venerandaDella tua sposa bruna;Le pelli per i cari pargolettiChe vi nascano in pace ed in fortuna.
Ma, fratello! passòVasto l’incendio sul mio dolce ovile:E del mio lieto gregge di speranzeUn agnello mi resta,Che fiero nutro con la madre cara,Vindice dell’infranto mio destino! Pure ti posso offrireUn dono più soave,Un serto agrestoDi motteti d’amore:Freschi fiori natii,Che udirono gli azzurri pigoliiDei nidi a primavera,Che sentirono i canti del pastore Lieti, se torni a sera al focolare,Dove la dolce sposa sta a ninnare.
Fiorita è la brughiera.
Dormon ne l’erba in fioreServi, mastini e armenti;Fiorita è la brughiera… O uccel di primavera,Volale dentro il cuoreE dille i miei tormenti.
Una cerva dal pianoCon una freccia al fiancoSale a bagnarsi al fonte…Una cerva dal piano… Dalla chiesa del MonteVedo il mare lontano,E piango e piango e piango! Uccelli che volateAi venti, all’aria neraSino alle terre more…Uccelli che volate… Almen per una seraLe ali mi prestateCh’io vada dal mio cuore! Lassù fonti di diamanteSono in boschi fronzuti:Qui la rana si lagna…Lassù fonti di diamante… Nubi che alla montagnaAndate, i miei salutiRecate al mio gigante! Un tristo mietitoreIn terre non cristianeSpighe taglia di tosco…Un tristo mietitore… M’hai tradito! Che il paneTi sia contrario, e nostroFiglio ti strappi il core.
Cani e ferro al cinghiale:Ma in verde selva ombrosa,Dolci panie all’uccello…Cani e ferro al cinghiale… Colomba, a te una rosaE un bacio: a tuo fratelloTre fitte di pugnale! Nel cielo insanguinatoLa luna brilla neraChé morto è l’usignolo…Nel cielo insanguinato… Vado come una fieraPer salti e tanche solo!Perché tu m’hai lasciato? Sul colle, a primavera,C’è un mandorlo fioritoRonzante d’api d’oro…Sul colle a primavera… Oh quella dolce seraCon qual core smarritoTi separai da loro! I frati di MonterasoPingon la MaddalenaCon una rosa in bocca…I frati di Monteraso… Bevi alla mia brocca,Bevimi da ogni venaIl sangue che m’è rimaso! La cuna urla d’affannoChé la Sùrbile col laccioFischia sotto le porte…La cuna urla d’affanno… Ti son caduta in braccio!Dammi meglio la morte,Ma non mi fare inganno.
Rosso il turbine ventaSugli stazzi d’Alà:Le cagne rignan forte…Rosso il turbine venta… È nato in mala sorte,Alla morte s’avventaChi amare mi vorrà! Vedo da punta UddèLa fonte della RosaIl mare e il sol levante…Vedo da punta Uddè… Colomba graziosa,Dietro il mio branco erranteVenire vuoi con me? Ai ruscelli la menta,Al cielo l’astro d’oro,All’anima la fede…Ai ruscelli la menta… Dormi dormi, tesoro!La lampana s’è spentaMa il mio cuore ti vede.
Stamane al primo albore,Cantando i rosignoli,Son passati i tre Re… Oh andare andar con te,A San Francesco, soli,In promessa d’amore! A meglio udir cantareGli usignoli, i tre ReHan fermato i cavalli… Oh andare andar con te,Per monti verdi e valli,Sposi freschi a Gonare! Sotto il cielo piovornoScendon branchi e mandrianiDal monte alla marina… Oh fossi un de’ tuoi caniPer esserti vicinaSempre, la notte e il giorno! Per la strada fioritaTornano al caro monteLa greggia ed il pastore… Alla svolta, sul ponte,Ti rivedrò, bel fiore,Cantando all’apparita.
Alto, nell’alba fresca,Il falco, occhioni d’oro,Vaga qua e là sul vento… Uno solo ne adoro,E tu ne adori cento,Ogni volto t’invesca.
Dal ciel l’aquila piombaSul branco, a rapinareLa più bella agnelletta… Cento ne so guardare,Ma tu sei la dilettaDell’anima, colomba! Bianca la notte tace:Chi picchia alla mia portaCon la mazza d’alloro? O capo d’anno portaFrumenti al Logudoro,E alla Barbagia pace! Componi il fuoco: ventaLa neve dalla golaD’Orùne. Empi il boccale.
Componi il fuoco: venta… Ma tu tracci il cinghialeSul monte, e il cuor diventaAllegro alla tormenta.
Fuggendo il sole lustraTugurî e vie fangose.
Freddo nido. A mezzodì… Vero: anzi una lustraTra montagne nevose;Pure il tuo cuore è qui! Zio Grillo nella vallataHa smarrito gli agrestiPifferi tra la bruma.
Zio Grillo nella vallata… Vedi? Il diavolo spiumaLe colombe celesti,E fa la nevicata.
Ecco gli ultimi squilli.
Il tizzo manda argutoGli ultimi bagliori.
Ecco gli ultimi squilli… Oh accanto a te seduto,In questa notte, e odoriL’arrosto e il vino brilli! La stella dei tre ReSul dirupo! Ha un sorrisoDi grazia ogni granito:La stella dei tre Re… Sette nemici ho ucciso,Sono armato bandito,E tremo innanzi a te!… LE PREFICHEDedicata all’amico G. Boldetti Tre prefiche stan ritte sopra i monti:Vigili e tristi stanno a lamentare.
Non femmine ma Dee: sul focolareDegli antri fan lamento con le fonti,E il cuor divino gittano sui venti.
Barbaricine Dee che sui dirupiCelan in arche dalle cento chiavi,I sensi e i segni delle nostre vite:Implacabili Mire redimiteD’alma quercia: Eumenidi soaviE invincibili: e piangon sulle rupi.
Piangon col vento, gemon cantilene,Nenie di madri su infiorate cune:Ruggon bestemmie mormoran preghiere,Latrano come cagne sperse in nereMontagne, sotto cieli di sfortuna,Ridon dementi, sognano serene.
Urlan d’amore sotto il ciel crudele:Singhiozzan come voi, spose, sui fidiCuori defunti: spasiman feroci,Avventan sorde disperate vociDi vedovate madri lungo lidiDeserti, dietro le fuggenti vele.
— O Deu, o Deu, o Deu! — grida, raccoltiNel busto d’oro i seni, la marinaPrefica del Bàrdia. Al mesto gridoRompon in pianto sul deserto lidoLe sirene: ma i cuori e la supinaTerra, paion in gran sonno sepolti.
— O Deu, o Deu! Barbagia, è la tua notteProfonda e perigliosa: né ginepriHai tu per le tue fiaccole, né mielePer le ferite tue. O di assenzio e fieleAbbeverata madre! Aspri di vepriSono i tuoi colli, e son deserte e rotte Le argentee porte dei tuoi gioghi. Il soleBrucia il tuo pane, e son fatti scorziniI tuoi pastori e serve le pastore.
Oh antichi maggi, odorate auroreDi serpillo! Salìa dai cilestrini Borghi, un ronzìo di pecchie e argute spole.
Ora la febbre stilla dalla esaustaIdria, l’acqua agli scalzi falciatoriDi giunchi e biodo, nei maligni greti;I poggi senza canti ed i fortetiSenza fontane, assonnan tra i vaporiGravi estuosi sotto l’aria infausta.
Perfida e grigia sta sopra CoràsiL’altra prefica; siede al focolareSpento, ché bene la riscalda il vampoDel cuor crudele. — Ohi! Immé! Immé! Il lampoInsanguina la tanca il salto il mare,Urlan le Furie sui vertici rasi Dai dèmoni del vento. — Immé! la pietraDel focolare è fredda e tutta neraDi sangue! O miei selvaggi figli morti!Per gli ovili deserti urlano i tortiNembi: son spenti i fuochi e nella fieraSolitudine, il mio cuore s’impietra.
Sciagura al dì che al disperato cuoreScese il congedo vostro, o mandrïani.
Esuli dalla tanca, in mozze chiome,Leccaste il rancio della ciurma, comeCani da piatto, e i turbini lontaniInvocai avversi alle migranti prore.
Ora badate i porci nella pampa,E siete servi e siete manovaliSmarriti e inermi: ed ogni eremitanoVi sputa addosso, e avete dell’estranoPaese, modi e fogge, e siete qualiLa gente di bisaccia, senza vampa Di vergogna sul viso. O miei banditi,Meglio meglio gli sdegni ed i corrucciVostri ed il vostro sangue, che non questoVil seme di bastardi! O asilo agrestoDei monti, ultimo asilo, di che crucciFremé il mio seno, quando, tra i graniti, Belli e violenti i vendicatoriGiacquero uccisi! E tu, aquila grigia,Re di strada, canuta gioventùFulminata sul greppo! Ora non piùLa brava tua canzon, mentre meriggiaLa montagna, richiama i cacciatori.
Tornate, esuli imbelli, alle divineMontagne. Già da tempo hanno le volpiGuastato la vendemmia, e han fatto taneNegli ovili i cignali. Alle lontaneMandre tornate, alle baldanze, ai colpiDi fucile, tornate alle rapine. — Estrema voce al disperato coroVien giù da Bruncuspina. La nivalePrefica piange: piange fuor dei boschiFragorosi, più su dei cieli foschi,Nell’aere immacolato, in un nimbaleDiadema di nevi e d’astri d’oro: — Donne, filate nella triste vegliaLe lane nere, i peciati velliDegli arieti cresciuti nelle spiagge;Filate, mentre anch’esse le selvaggeFiere dormono e gli alberi e gli uccelli,E solo la dolente anima veglia.
Donne, tessete con lo stame neroIl fosco orbace, e lo tagliate tuttoTutto tutto ad un nero vestimento.
Ahi! non bastano cento e cento e centoCanne d’ordito, per vestir di luttoTutti i vostri pensieri e il mio pensiero! E, donne, sospendete all’architraveDi ginepro, le lampade di ferro:E sia spento e spazzato il focolare,E in devoto cerchio a lamentareSiedete su sgabelli alti di cerro,E bruciate l’olibano soave.
Ché vostra madre — verde alpestre ramoDi leccio, amor dell’aquile, cuor miteEd atroce — già compie il suo destino.
Fatele onore, ché altra, nel divinoCuore di madre, non portò feritePiù di questa Selvaggia che piangiamo.
E neppur dieci coppie di quei buoiFortissimi, nutriti nel pianoroCon la quercia, potrebbero in sette anniTrainare la soma degli affanniTuoi, o madre veneranda, e del martoroTuo, e dell’odio di tutti i figli tuoi! Fatele onore, ché fu madre anticaDi pastori patriarchi, che al verno Popolavan di greggi i CampidaniE i paesi del mare, e avevan caniE cavalli bellissimi, e governoAvean sulla genìa scalza ed aprica.
E fu nutrice di servi fedeliChe, delle spose immemori, nell’uzzaDel mattino, sui monti vigilavanoI verri, ed imperterriti cacciavanoL’irto cignale, con la selce aguzza,E con la fionda l’aquila dei cieli.
E fu madre di vecchi e di garzoniArguti ai canti come la cicalaDel poggio, esperti al coro ed alla gara:E d’agricoli fu madre preclara,Abili nel guidare sopra un’alaDi monte, i plaustri gravi di covoni.
Fatele onore! E voi, strani romitiPastori di Lodé, che vi cibateDi carne e miele, voi di bassa fronte:E voi pastori miei del SupramonteDi Orgòsolo, aspre stirpi coronateDi nera chioma, indomiti Pelliti, Ecco, voi tutti, presso le fontaneDei vostri ermi valloni, tra la selvaCedua, stanate coi magri mastiniIl gran cervo solone; dai querciniBoschi caduti, moribonda belva,Salì le solitudini montane.
Qui l’uccidete ed arrostite i lombiSull’ampio focolare, e focolareSia un cerchio di nuraghe, e dal caprinoOtre fremente voi spillate il vino,E pranzate nel bosco secolareUltimo, tutto vivo di colombi.
Fate il banchetto funebre, ed il cantoTriste e fatale ogni lamentatriceIntoni cinta delle bende gialle:La domatrice rude di cavalle,La fiericida, la vendicatrice,Stesa è sui monti col grande arco infranto! L’AUTOMOBILE PASSA
È l’alba, un’alba nuova, pur se il galloNon canti e taccia il cornoDel capraro, ché incombe al triste valloE al mare il mezzogiorno.
Alba di vita è questa! Donne, il vinoDate agli uomini, e il mieleAi fanciulli, e a tutti il bacio e il divinoRiso del cuor fedele.
Rotto è l’incanto desolato: avràUn pio palpito umanoAnch’esso il mio cuor rude: la cittàLieta mi dà la mano.
O Febbre che fu? Un’aquila, una freccia,Col volo fremebondo,Mi corse sulla strada aspra di breccia,E mi parlò del mondo! Divina solitudine, che fu?Nel silenzio dell’ora,Udivo nascer l’erba e scender giùIl pianto dell’aurora.
Or, ecco, un rombo strano e strane belvePassano. O rusignoliAntelucani, o fiori, o mandrie, o selve,Ora non siam più soli.
Io son ferita! O miei feroci alunni,Con la soga e la roncaChe guidai nelle lune degli autunniVentosi, alla speloncaDel mandrïano, a cui feci dai loschiOcchi, recer la vita,O miei figli, tornate ai vostri boschi,La leggenda è finita! Udite, morituri archimandriti,Patriarchi custodiDell’antico costume, e voi, banditi,Belli feroci prodi:La patria che nudrì l’anima amaraDi crucci, è moribonda.
Or voi con l’elce fatele una baraGrande grave profonda,E, morta, ve la chiudete, nei mantiNeri del secolareSuo silenzio ravvolta, e senza pianti,Sprofondatela in mare.
O arsa Baronìa, se la perniceTra i fieni guidi la covata, e il granoBiondeggi lieto, sogna nel tuo piano,Tra fiume e mare, il tuo figlio felice:Di primavera a me piace tra’ pioppiSieder cantando, e udir donne a cantareMotti d’amore. Fra sereni scoppiDi risa, quella che m’à preso il cuoreFugge e mi sfida: chi potrà legareLa bella fiera coi lacci d’amore? Ma sogna il figlio del verde pianoro,L’uomo vestito di broccato e d’oro: Di primavera sento nelle biancheNotti di luna un fremer di cavalli.
Ecco io deliro correr per le tancheFiorite, su un puledro di tre anni,Correre sempre, correr fin che i gialliFuochi del sole indorin San Giovanni! Ma pensa il figlio della rupe, cuoreTutto di selce ed anima d’astore: Di primavera l’anima m’investeUn folle soffio di rapinamento!Oh calar dai dirupi, con agresteTorma orgolese, a saccheggiar gli ovili,E poi salire, anzi volar sul ventoDell’aürora, al monte, ai noti asili! Non dormono, ma sognano: l’artiglioD’un nostalgico sogno s’è confittoLoro nel cuore: non più il bel corittoA fiamme azzurre, il coritto vermiglioChe li vestía di luce, ma il fustagnoVile e la fuscïacca! Il sogno al rulloDella nave si culla: fosco e brulloDentro il cuore è il villaggio, erto grifagnoSulla deserta rupe: al limitareFilano nere donne taciturne.
Ed ecco la montagna e grotte ed urneSonore al vento che vien su dal mare.
Pascon lungi i mufloni. I padri, soli,Nelle capanne. È sera: dall’alturaSale la luna: van per la frescuraArmenti e greggi e cantan gli usignoli.
Tacciono i galli e taccion gli usignoliPoi che sul colle tramontò la luna.
Ninnananna, tesoro! i grilli soliStrepono fuori della zolla bruna.
Quando sarai grandino, ninnananna,Coi giunchi caccierai per la forestaI pettegoli grilli, ninnananna,Che al triste padre tuo rompon la testa.
Cala la luna: dalle balze d’oroSi leva, cinto di coralli, il sole.
Su su su su! Le vipere tra loroSibilano e le biscie fan carole.
Quando sarai più grande, ninnananna,Sarai più ardito e destro cacciator:Schiaccia la testa ai serpi, ninnananna,Che al triste padre tuo schizzan tra’ fior.
Oh notte della colma primavera!Or scendon i cinghiali dalle selveA sgretolar le spiche; l’ombra neraÈ tiepida d’aneliti di belve.
Su, in groppa, con lo schioppo, ninnananna,Caccia i cinghiali e uccidili sul monte:I falchetti son desti, ninnananna,E il primo raggio imbianca l’orizzonte.
L’alba è vicina: accendi la tua faceAl primo raggio, o mio Vindice. Al pianoVanno i rei mostri in guerra col mendaceStuolo dei sogni: all’erta, o mio sovrano!Sei fatto grande e fiero, ninnananna!Son mille più di mille i tuoi compagni:Allegri, cacciatori, ninnananna,Che l’aria è corsa da continui lagni.
Cadono i mostri. Alla tua culla santaPiovono i cieli fiamme di rubini;Taccion sotterra i grilli canterini,Ma il gallo, ninnananna, il gallo canta! Sulla deserta vettaIl palo telegraficoRonza perpetuo ai venti.
L’orfanello eremita,Il servetto capraroBatte con una selce l’esil palo,E ascolta la profondaSegreta melodiaChe si sprigiona dal percosso legno.
Or si ricorda quando sua madreA Nuoro venne: era nel luglio ardente;Nel gran sole tonavan le campaneDalla chiesa maggiore, e, dentro, l’organoSospiroso gemea con simil voce.
Fuori una turba oscura,Ed urli e pianti, e l’ululoDi sua madre, e suo padre condannato.
Il cuore amaro sussultò. Non piange:Sa che il sardo non deve pianger mai.
Un gallo canta e gli risponde un gallo.
Rintrona il corno pastoral: riapreLa servetta le stalle, escon le capreBianche pavide: il greppo è di corallo.
Ma perché oggi ronzano l’albataL’api dell’orto e mormoran tra loro?Stasera vien la sposa inanellata,In nivea benda, col bel cinto d’oro.
Pendon uccise pecore e montoniDai cavicchi di corno: nei canestriOlezzan fichi e pesche, e di campestriGigli è sparsa la corte. Oh quanti suoniE balli avremo qui, ché dai paesiCorsi dai soffi ardenti della LibiaSon venuti stanotte i MarrubbiesiEsperti della falce e della tibia.
Or riposan nel portico, su lettiDi pervinca; nell’ora vespertinaIntoneranno la pelicordina,La danza dei mandriani giovinetti.
E tu, labbro di miele, tu rapsodo,Che le generazioni e le scrittureSacre conosci, e sai, divino, il modoDi allietare tutte le creature, Che sei signor dei sogni e re degli inni,E col tuo verbo leghi gli usignoli,Su levati, già s’aprono i boccioliDel beldigiorno e squillano i cachinniDelle operose serve, e un canto intessiMemore e bello che allegrezza diaAi mesti: al falciatore tra le messi,E al nomade pastor nella sua via.
E tu, nutrice antica, apri il portone:Spalancalo, ché or vengon dagli oviliI guardiani dei branchi, coi fuciliA pietra, e portan tutti il forchettoneFausto, ravvolto in salvia ed in mortelle,E portan pur cignali e mufle d’oro,Piegate, sanguinanti dalle selleE le trote e le anguille del Taloro.
Ecco gli ospiti amici arsi dal sole,Arrivati da Òrfili e dai saltiMarini, belli con legati agli alti Arcioni, il serramanico e le pistole,Con l’esili archibugi e le cintureDi cordovano azzurro, e la bisacciaFiorita. In dono recan confettureDi cedro e il moscatello e la vernaccia.
Non vino: ché stan chiuse nel celliereMolte botti, e tutte d’olianeseAmbrosia, che prigioniera inteseIl palpito di venti primavere.
Sangue del sole espresso dalle rupiCalcaree, amaro come il fior del vepro,Ardente e aulente come su le rupiDi Puntanidos fiamma di ginepro.
Rompete i cocci e i piatti! Ed entra, o sposa,Nella tua nuova casa. E voi, leggiadreVergini, sospingetela alla madreNuova: ella l’abbracci con lacrimosaGioja! E voi tutti, reverenti, doniDatele e il bacio, e le fanciulle intantoAppresentino i vini ed i torroni.
E tu, rapsodo, tu libera il canto: Amore suona forte la sua tromba,E intìma guerra in un giardin fiorito.
Volata è qua, col suo cuore ferito,Una gentile e candida colomba.
Datele un amuleto di verbascoE vino dolce e pane di frumento,Fatele un letto d’oro e di damascoE una culla con tavole d’argento.
Sono in prigione i piccoli pastori,E maggio scende giù dalla ferrataE batte ai cuori. Non la madre afflittaEssi pensano, sì le nicchie azzurreDella montagna, le sublimi tazzeDell’aquila e del cervo.
Verdi di pino gli altipiani odòrano;I cavalli son sciolti e i padri caccianoCanuti sulla rupe.
Doghi e molossi latrano,Ma i giovinetti stesi, sulla sellaLa bruna testa, vedono passareAlti voli di astori e cilestrineOmbre di nubi, mentre il servo anticoFa racconti di sangue e di rapine.
Figlio innocente! Il marmo ed il granitoSon fragili ricordi, e il bronzo e il ferroSono in balìa dei fulmini.
E quella pietra neraA cui presso ti vidi— E ti era accosto il dogoChe avea rotto le soghe —Sì, quel nero basalto battezzatoCol tuo sangue, sarà roso dai secoli.
L’odio soltanto sta nei cuori eterno.
O figli, o figlie cui dolce fratelloEgli fu, o miei figli!E voi nepoti, figliDella settima generazïone,E più in là, mandrïani,Aratori, pastori,Banditi, quando ai rivi e alle fontaneVi dissetate, proni come belve,E quando con lo sguardo muto e acutoVoi giudicate il pascolo ed il solco,Vi guardin di sotterraGli occhi suoi di colomba,Fisi, e vi s’anneri intorno il mondoPe ’l suo ricordo e per la sua vendetta.
La madre cerca il figlioletto ucciso:Era una palma, un fiore di narciso! E aspettandolo, in pianti s’addormenta:Un nembo di vendette fuori venta.
Sognando cerca tutta la campagna,La valle il piano il bosco la montagna.
E cerca e cerca lo ritrova in cielo,Con la mandra, in un campo d’asfodelo.
«O mamma, t’aspettavo e sei venuta:Ma come piangi, come sei sparuta! Oh rimanti con me! Ecco, è l’aurora,E il padre il padre mio non viene ancora».
«Babbo non viene ancora a queste parti,È rimasto laggiù per vendicarti!» CANI DA BATTAGLIAPer la guerra libica Nell’ombra formidabili, mastiniDi quel buon sangue antico, che gli atrociPadri aizzaron contro i legionari:Alani d’Orzulè, barbariciniDoghi cogitabondi sanguinari: Cani di Fonni, vigili sui montiDeserti al passo dei rapinatori:Pugnace razza implacabile, prontiSempre all’assalto, come l’aura lievi,Seguaci come l’ombra, negli orroriDelle notti ventose, tra le nevi, Soli compagni al nomade e al bandito:— Il bandito nel fiero odio tenaceRichiama il suo fedel dogo nutritoDi strage: Murrazzànu, Sorgolino,Leone, Traïtor! ma più gli piaceIl nome fratricida di Caino.
Cani di tutta l’Isola, al pastorePresidio ed all’armento, dalle acuteZanne bramose a sradicare il cuore,Ecco: la Guerra suona la dïana,La Cacciatrice chiama le sue muteAlla gran caccia, come alla bardana.
Ma si caccia altrimenti che nei freschiQuerceti di Gallura e Logudoro,Qui cuor per cuore sia, cani sardeschi!Siate tremendi e prodi a gara a gara,Come in quel germinale, sul sonoroLido di Quarto, in Capo Carbonara.
O pastore d’Ogliastra, tu che calchiPrimo gli ultimi ghiacci dell’Orisa,E ne sai tutti i venti e tutti i valchi,Grande un mastino d’Àrzana tu scaglia:Egli saprà cacciare in quella guisaChe sui dirupi, in mezzo alla battaglia.
Egli tracci quell’un, che il tuo vicinoStraziò innocente, e a lui cavi l’entragnaCome all’agreste verro il buon mastino!Ecco ritorna. Pedra Liana ai raggiDel sol morente è un’ara: la montagna Aquile nere vanno incontro al sole,Alte divine; Gennargentu splendeNella gran sera cinta di viole.
Torna il mastino d’Àrzana. — Alle porteSchiuse al duolo, una madre in nere bendeSta grande e fiera in un pensier di morte. — Verrà, Ogliastra, sanguinoso a berePrima al tuo monte. Dagli a dissetarloTutte le vene delle tue scogliere,Ma non lavarlo, no! Sian rosse ed adreLe sue zanne di sangue, ché a mirarloGioja ne avrà quell’aspettante madre.
Bocche che ancor sentiteIl desio di materniBaci, e agli immiti inverni,Come gigli sfiorite: Lievi manine fattePer sorprender farfalle,Per coglier nella valleI nidi tra le fratte: O piedini cui mordeFrizzando acuto il gelo,Se agghiaccia terra e cieloIl Dio misericorde: Chi vi fa ramingareCosì, sempre, o piedini?O poveri bambini,Chi vi fa mendicare? Perché piangono i cigliVostri, o bambini leggiadri?Non han più scure i padriNon han le madri, artigli? Tornavo alle mie rupi, alla mia lustra,A una tomba romitaTornavo: — oh tomba innocente, che lustraDalla montagna la nascente luna! — Pioveva: nel livido orizzonteEra un sorriso soloDi crisantemi rossi.
Per la stazione desolata e vastaNon ombre o voci. I treni eran partitiPer terre di dolorePortando altri dolori.
Nel piovoso orizzonteL’aiuoletta rideaDavanti a un dolce nido:La scuola… Salve, pia scuola, nel vernoDelle tanche ventose incoronataDi fiori: arnia ronzanteDi cento voci d’oro.
Alla fredda mattina,Quando gli armenti bradiE l’errante pastoreEscono dalla notteTorvi, con l’occhio insonne,E canuti di brina,Voi dalle cantoniereDal Logudoro antico,Del pampineo Meilogu,Armonioso, amicoDei vati, e delle nereDi solchi piane d’Àrdara,Dai bianchi bugniSolitari e tediosi,Voi sciamate, piccini,A quest’arnia festosa,Sul tonante convoglioChe vi attende e vi porta.
E la scuola vi accoglieE vi abbraccia, o miei figli;Vi accoglie col sorrisoDe’ suoi fiori vermigliCoi tepori d’un nido,Con la parola augustaDelle vostre regine,Le madri che, in divineAnsie mortali, il cuore Hanno sempre sospesoPei loro figli e per i figli altrui;Con la dolce parolaDi quelle vostre madri giovinette,Delle vergini madri,Le vigili sorelleVostre maggiori, lieteNell’opera gentile,Pari a lodolette quando s’alzanoDai solchi dell’aprileE in vista al nido cantano.
E le vigili schieranoA voi la strada oscuraCon la facella d’oro.
E vi ammoniscon: — GloriaA chi sparge il buon semePer la trebbia futura:E gloria a tutti i cuoriPalpitanti d’amore,In terra e sotterra:Gloria alle braccia umaneFaticanti nel mondoPei piani per i monti per gli ocèani. —Ma alle vostre vetrateGrida il vento sinistro,Urla il sinistro fischioDel dèmone che vaCon la sua turba nera,Col rapido trainoDi gioje e di tormenti.
Che se l’uggia vi avvolga e quel lavoroVostro, la nobilissima fatica,Vi sembri dura ed inamabil cosa,Ripensate alle pene vagabondeTravedute nel vostro breve volo,Nel vostro breve viaggio cinguettante;Ripensate la penaNel piccolo pastore,Che invidia velli ed erbe alla sua greggia,E se ne va ramingo sotto il cieloVasto, che lo minaccia e lo percoteCieco, con le sue raffiche di gelo;Ripensate la penaDel misero aratoreChe ara senza canti, tra la sizzaDel gelido mattino,La terra che un altro uomo mieterà; Che avete visto torvo contro il nembo,Seminare il suo solco, e avea nell’atto,Spoglio di santità,Una crudel tristezza, una minacciaFolle: parea che il misero gittasseSemente d’odio sulla terra antica.
Or ecco è l’ora del ritorno, e tuSbuchi, ronzante sciame luminoso,E s’allegra il deserto.
Ed è l’ora che i treniSono giunti dal mare,Spinti dalle tempeste,E giù dai monti neri,Aneli a rincontrarsiIn questo muto cuoreDell’Isola. La turbaNera che viene e vaSui fumosi convogli,La varia turba oscuraChe parla tace e canta: L’operajo, il signore,La placida signora,La madre del banditoChe trema come fronda,Il ladro catenato,Il soldato che fischiaE canticchia, l’astutoCellonajo, l’anzianoCoi calzoni di saia,Ed il rapsodo, argutoRe dei canti, in bisaccia,E il nomade col sago,Barbuto e taciturno,Tutti con un palpitoDi gioja guardan voi,Piccoli alunni, figliDi tutti i cuori, fioriFioriti in rudi solchi,Albe aspettate in tormentose notti.
E sospirano: GloriaA te, buono, per questoAlbergo ai voli onesti,Per quest’arnia sicuraAgli innocenti sciami,Per questa fonte puraScavata nel deserto.
Smarriti, a notte, andavano. MelchiorreGuardingo, innanzi. Rombava la voceDella bufera, grande tra le forre.
Era l’ira di Dio in quell’atroceValle d’Orune. Ai lampi, camellieriServi e re si facevano la croce, E gridavano: Siamo passeggeriSperduti a mezza strada. Aiuto, aiutoAi re magi, porcari di Marreri! Chiamavano al deserto: ché l’irsutoGuardiano, se infuria la bufera,Più bada e pensa al suo verro sperduto, Che non ai re. D’un tratto un’ombra neraScorge Melchiorre: un piccolo servettoPastore vede, in pelli e in ventrïera, Un aquilastro, con un suo branchettoSmunto, a un ridosso per la tramontana.
Dolce gli parla: — O bel sardignoletto, Salute! Odi, fa opera cristiana:Noi siamo forestieri e abbiam smarritaLa strada. Andiamo a Nuoro: è lontana Nuoro? — Eh! fa lui, una bestia speditaVi giunge in un’oretta, ma un pedoneNe impiega quattro, ché è tutta salita.
Ma voi chi siete? Da quale regioneVenite? Forse siete proprietariIn cerca di bestiame o di pascione? E codesti animali straordinariChe diavolo sono? — Son cammelli,Questi a due gobbe, gli altri dromedari; E noi siamo i tre re. Senza vascelliSiam venuti dai regni d’oltremare,A recare speranze e sogni belli.
Ora si va a Nuoro. Ci vuoi fareLa strada fino a Nuoro? Su, rideGià l’astro, e abbiamo a cuore d’arrivare. — Sì, la stella lucea su Puntafide,Grande e chiara. La vede ed a cavalloBaldo salta il fanciullo, il falconide, E va coi re. All’alba, il nudo valloTutto è desto; le mandre per gli oviliBianche vagan tra’ sondri di corallo.
Il bimbo trotta e ciarla: — Oh voi, fuciliNon ne avete… Mio padre n’avea unoLungo, di canne sottili sottili.
Mio padre? L’han sgozzato presso al prunoDel limite: arava in Punta FumosaArava: non facea male a nessuno! Io son servo. Mia madre GraziarosaÈ sola in casa, sola, ora. — Ed al pioRicordo della madre dolorosa Tacque. Poi borbottò in quel natìoSuo modo un canto che sembrava il piantoDi un affanno che non conosce oblìo.
Ma ecco Nuoro: ecco il camposanto,La tanca della morte, e la chiesettaSola: la Solitudine, e d’accanto L’abituro di Lino, con l’erbettaArgentea innanzi: e in fondo della viaIl dazïere nella sua garetta.
Nuoro squillava all’epifanìa.
— Eccovi giunti, disse l’aquilastro,Io torno, e voi andate con Maria. — — E tu con Dio, risposero, e che l’astroNostro ti segua, e dovunque tu vadaTi si muti in olivo l’olivastro.
Però, prima, hai da sceglier ciò che aggradaDi più a te, tra’ bei donuzzi ch’oggiNoi portiamo ai bebè d’ogni contrada. — E le oprate bisaccie a fiori roggiVersâr tanti giocattoli, che il brulloPiccolo spiazzo se ne empiva a moggi.
Ma l’aquilastro non trovò un trastulloAlla sua pena: sempre ha fitto in coreSuo padre ucciso; il misero fanciullo.
Ah no! Tra quei balocchi, al suo doloreRide, disperso fuori dalla fidaGuaina, un bel pugnale a passacore.
Lo ghermisce, ché l’odio fratricidaDel suo perverso seme nel rubestoCuor ratto gli divampa, ed: — Ecco, grida, L’uomo dev’esser contro all’uom nemicoSimile a Murrazzànu.
Murrazzànu, il molosso, all’albeggiareLevò il cignale e fiero l’inseguì.
Sotto le quercie, all’ombra, a meriggiareStavan pastori e branchi a mezzodì,Quando il molosso ansante ritornò,E l’ansima dal petto gli cacciòIl sanguinante cuore della belva.
Elci solenni, erboso limitareDi eremi deserti, un vol d’astoreNel mezzogiorno, palpiti di mare,Una preghiera, un canto di pastore.
E giù Nuoro, soave e maledetta,Cuor di Sardegna: e intorno, nell’apertoFulgore del mattino, il vasto sertoDei monti, arsi di sole e di vendetta.
— Giù dall’antro di Lino la buferaSi sferra, disse il vecchio, con lo sguardoSegnando il nembo. Entrammo: la capannaTra i selvatici olivi come un nido,Tremava al vento. Un pargolo assonnavaCullato da una strana ninnananna.
Accucciata dappresso era la madre,Bruna scarna: una schiava! Oggi né maiAvrà pace la spia, Lino la spia,Disse il vecchio. Ché a lui per poco infamePrezzo, piacque tradir gli ospiti suoi.
Eran banditi, e Dio spinse quei mestiAlla casa di Lino. Il vino e il paneAgli ospiti egli porse, poi nel sonnoLi uccise: il sonno uccise! Ahi! da quel giornoLa sua casa ruinò. Sonava intornoD’opre e di canti la tranquilla casa.
Tolto dai bugni candidi, nei ziriChiariva il miele, e dentro saldi tiniDi castagno fervea, gioja dei prandi,Il vino. Or tutto se ne andò sul vento,Come la piuma degli uccelli. MortaSenza pur quella pace che ai più mestiDestini Dio non nega, è la sua sposa,Già florida e ridente come un mandorloIn fiore.
Solo, misero, percossoOr dall’odio di mille anime, LinoVa per la terra, va per gli sterpigniCampi, sui monti, nelle solitarieValli, tremando, ché implacata senteSui passi suoi la pesta d’altri passi,Non visti mai, che sempre mai lo seguono,E non lo giungon mai.
Se mendicandoA le nostre capanne egli si affaccia,Ogni cor lo respinge. Un pane d’orzoE poco latte, fuor della capanna,A lui porge il pastore, e Lino siedeIn un canto, lontan dal focolareChe solo splende ai buoni. Indi solingoDagli ovili si toglie, e va col vento Per le tanche randagio, né l’acutoAssiduo gelo della mortal febbre,Che le misere sue membra raggriccia,Scioglier potrian pur quelle che sul foltoOrtobene, nereggian elci annose,Se ardesser tutte tutte in un sol rogo.
Ora lassù nell’antro suo, che al ventoS’empie di voci, Lino ascolta il nemboFolgoreggiando dirupare al piano,E fra l’èmpito sente, e il rotolareGrave dei tuoni, fremer con la nostraL’ira di Dio. — Così dall’aquilinoReo sguardo, balenando l’implacatoOdio, il vecchio parlò.
Dal vasto pianoFra il gemito e lo scroscio delle quercie,Passionate dai flammei abbracciamentiDel fulmine, salìa vario il tumultoDegli armenti e dei greggi, e voci e sibiliDei mandriani, e dei torrenti il tuono.
Ruppe allor dalla mia anima il gridoSu la procella. O rivi che, dai verticiFulminati, correte alacri al mare:E negri uccelli, voi che dei diviniCieli siete i pensier torbidi: e voiVenti, che siete degli aperti cieliIl palpito e la voce, con voi lungiRapite il seme onde germoglia l’odioChe il cor ci strugge, e dolce sopra l’animaScenda un sogno di pace, qual, su torvaFronte, scende una pia mano materna.
AI RAPSODI SARDI
O fratelli, rapsodi dalla chiaraVoce, dal cor soave più che il fioreDella melissa, ai canti ed alla garaAneli, come indomiti morelliAll’invito del vento emulatore,Là nel pianoro bianco di olivelli:O poeti, se all’anime che adoro,— Anime tristi ardenti nel silenzioCome lampe — sonasse nel canoroAccento dei miei padri la canzoneDella speranza mia, monda d’assenzioE pura d’ogni fosca visïone,Anch’io alla pensosa turba assortaTal inno innalzerei che alle paroleAlate, trionfante aquila al sole,Si leverebbe l’anima risorta.
Ma fu negato a me questo celesteDono, d’un pietoso nume dono,Molcer gli acerbi affanni e le funesteCure col canto. E amati e veneratiSiete perciò, fratelli, e senza tronoNé spada, siete re: ché allor che ai pratiRitorna il nuovo april cinto di foglieE prìmule, recando sogni e grateOmbre ai pastori, all’erme vostre soglieBatte con una rama d’asfodeloIl sole e v’incorona, e l’umil vateFatto è re della terra e re del cielo.
E andate per l’antica isola, aediErranti, a dispensare larghi il cantoAd ogni cuore: al mietitore affrantoTra le messi, e al pastore tra’ suoi redi.
O gioja in rimirarvi alti rapitiSulla festosa folla che vi abbracciaRinfiammandovi in cuor gli estri sopiti,Col suo palpito immenso! Ecco, un’ebrezzaVisibile v’inebria: arde la facciaAlla sùbita febbre, e la lietezzaDell’anima trabocca in inni e in cantiMeravigliosi. Ed è come stillanteFavo la vostra bocca, dei fragrantiFavi il più colmo e ambrosio: e il vostro cuoreÈ un montanello sulla onduleggianteVetta del pioppo, quando il giorno muore,E ridon d’oro i colli e vien la seraSilenzïosa, e dalla rosea rama Immoto pia pia e canta e chiamaTutte le melodie di primavera.
Oh gioja udirvi allora, quando pienaVi sale l’onda delle rime al labbroGrazïoso! Da quale ignota venaTanta dolcezza? Il mesto che vi ascoltaSi rallegra: gli par che un ventilabroD’oro nel cuor gli ventoli una foltaMesse di speme incognita. E va lentoPer piane verdi d’orzi, alla sua tancaVermiglia e azzurra sospirante al vento.
Ambia col grave ritmo delle ottave,In sogno sulla sua cavalla biancaStellata, in groppa avvinta la soaveCompagna. Monte Spada ecco dimoia:Acque d’argento scendon con sereneRime: il mesto indugia e affanni e peneDimentica, e si abbevera di gioja.
Ché la vostra camena è una fanciullaBellissima che vien dalla fontanaBalda e dolce, la rossa anfora sullaSua testa d’aquiletta: il cuor le volaLieto innanzi, la bella filogranaTinnisce il riso dell’aperta gola.
Il pellegrino stanco chiede un sorsoPer la sua sete, inclina ella la broccaRòscida, e quegli beve e il cammin corsoOblìa e benedice. Ella sorrideE lontanando, dalla rosea boccaVersa motti d’amore. Tal ne arrideLa vostra musa ingenua, a cui l’anticoIdïoma del forte LogudoroCinge doppia corona: una d’alloro,L’altra di rose e d’olivastro aprico.
O sacro idioma, nato tra nuraghiE tombe e selve in cuore alla pianura,Lieta di messi d’opre e branchi vaghi:Maschio eloquio fiorito perché i padriTi parlassero gravi sull’alturaQuali profeti, puro a che le madriNinniassero i figli, o uccisi o mortiLi piangessero: accento alto d’imperoSul labbro a Leonora: urlo di fortiSchiuso in un inno dal deserto grembo,Madre, minace tuo, inno del neroTuo cuor, Sardegna, quando il breve nemboFolgorò su’ tuoi sonni. Oh bel picchiareAll’alba, di quel verso che ruggì, Martellando i battenti, «Cando siTenet bentu est prezisu bentulare».
Gloria, fratelli, al fabbro di quell’innoChe per nere capanne e spersi oviliCercò i cuori, e col suo fiero tintinnoLi trasse verso il sole a le vendette.
Oh! i cavalier di soga e i bianchi e viliLacchè, incontro ai menghi e alle berrette!E gloria ai padri aedi, gloria al sacroCoro che dal Limbara al mare azzurroDi Spartivento, insino al solco macroDi Aritzo, per l’intera taciturnaIsola, sospirò come un sussurroDi primavera sulle fosse. E un’urnaDi miele versò sulla tristezzaDell’uomo. Quando Luca, in aspre selve,Ai banditi cantava, quelle belveSi scioglievano in pianti di dolcezza.
Voi siete buoni come si convieneAll’uomo amico delle muse, e i giorniTrascorrete nell’opere sereneDel monte e della valle. Tu profondiIl solco tuo diritto, e i canti adorniTi aleggiano d’intorno come ai biondiFrumenti, stormi garruli. Tu il brancoGuidi, pastore aedo, alle sorgentiBenignamente: la verga di biancoTamarisco è il tuo scettro, poiché sdegniIl rissoso bastone, e nei lucentiSilenzi della notte — quando i segniDel ciel ridon più belli, e il cor che saOde sperse armonie — l’anima carcaD’innocenza, tu incedi, patrïarcaD’antico tempo nella nostra età.
Tu nella rosea nitida pietraiaBatti sui ferrei cogni col mazzuolo,In pugna col granito. La giogaiaTi avvolge col suo anelito e con grandiVelari d’ombra, e in quel silenzio, solo,Con la tua mazza nella selce scandiPicchi tìnnuli, sì che un’armoniaPare anch’esso quel tuo rude lavoro.
Ma negli ozi leggiadri in solatìaPiazza, o in ampio cortil, la gara argutaAdùnavi. Dinanzi vi sta il coroE l’ansia turba: chini sull’irsutaCriniera dei cavalli, i mandrianiOdon, e voi cantate. Il canto è fede: E l’anima selvaggia ora vi chiedeSe debba amare od odiar domani.
Ammonitela voi, coi vostri carmi,O fratelli! Cantatele dei padriChe contro Roma caddero con l’armiIn pugno: celebrate la perversaVirtù dei vinti, cui scovò dagli adriCovili di Belvì, la rabbia avversaDei mastini famelici: dei vintiChe nei fôri dell’Urbe, presso i templiMarmorei, di ferrei ceppi avvinti,Parevan di sì mala domaturaChe nessun li comprava, sì dagli empiCuor la vendetta tralucea sicura.
Glorificate l’odio secolare,L’amore eterno, avvalorate i cuori.
O poeti, cantate gli splendoriDella Sardegna libera sul mare.
Madre fatale e bella a tutti ignotaAnche ai tuoi figli, chi ti adoreràCom’io t’adoro! Agli strani remotaIo ti vorrei: sinistra sanguinosaCoi tuoi banditi, con le tue cittàMorte, ingioconda atroce febbricosa,Ma tutta sola e oprante e senza pianti.
Io ti vedrei mandriana ai dolci maggiSalire, coronata di ronzantiPecchie, il tuo monte acceso dall’aurora,Dietro i branchi, e passar sui bai selvaggi,Prima nell’àrdia, ardita corridora.
Oh nei sereni monti in cime e in grotte,Alte fiamme di pace, quando i cieliS’imbrunan vasti, e dormon i fedeliArmentari alla virginëa notte! Io ti vedrei nel vespero di giugno,Sugli aerosi miei colli sereni,Bella e discinta con la falce in pugno,Mieter cantando quell’ultima randa,E spulare coi zeffiri tirreniIl frumento sull’aja veneranda.
Spartiresti il tuo pane ai tuoi figlioliGiustamente, ché lungo fonti chiariE verdi vigne e sussurranti broli,Gli elcini carri carichi di granoTu guideresti ai nostri limitariFioriti di giaggioli e zafferano.
E siederesti poi, madre, sul monte,In cuor secura con la certa fionda E la scure. Chi toccherà la frondaDi quercia che ti ombreggerà la fronte? Ma ti vedo raminga nella tancaSterpigna, lungo il lido, ad ascoltareLa gran voce del flutto che s’imbiancaUlulando: lì presso un branco belaMelanconico, e tu guati il tuo mareDeserto. Dimmi, quale amica velaNavigò a te dalle felici prode,Recando una speranza alla tua pena,Un nettareo nepente al tuo cuor prode,Una facella d’oro a questa neraTua notte, o taciturna? Il ciel balenaTacito e cala tacita la seraObliosa. — Da qual vermiglia vettaTi vestirà l’aurora di splendore?Tu l’aspetti nell’ombra, ed hai nel coreSogni di gioja e sogni di vendetta.
Eppur, fratelli, io m’inebriai di questaTriste patria che sta sola sul mare,E nutre come l’aquila rubesta,I figlioli di sangue. Ed il mio cuoreRisorto palpitò d’una solareLetizia nel suo seno, e il mio doloreSi tramutò in un sogno di speranza.
L’anima si confuse nella luceSulla montagna, e seppe la fragranzaDei fiori agresti nati sulle tombeDei primitivi, e nella selva truceDegli orgolesi apprese, tra le rombeDel ponente, l’urrà del sanguinarioPallido e triste come un sire, e in MonteRasu, sentì sull’erba e sul bel fonte,Sotto l’elce e il ginepro solitario, Sparsa la santità di San Francesco.
E venerò nei boschi d’oleastriUn dio pellita, e navigò nel frescoMattino, dalla rada umile, biancaDi greggi, alla Caprera cinta d’astriE d’inni; e là dove più chiara e francaRisuona l’onda sull’azzurro abisso,La scogliera mirò donde le sardeDonne traeano il prezioso bissoPer vestire l’Eroe. E nel tepenteVernal meriggio — oh come dolce m’ardeQuel ricordo! — solcò, tra la clementeSelva di glauchi ulivi, l’armoniosaOnda del Temo: su, tuona la caccia,E giù, ai battelli le flessuose braccia E sognò lungo una deserta rivaFra due rovine: il mare infaticabileAbbracciava la terra che gli offrivaI suoi gigli languenti, e sole e cieloFolgoravano flammei un immutabileRiso alla terra e al mare. Là, tra i veliDel Tirso, la città degli ArborensiDormìa: bella per sue case tacentiQuali sepolcri, tra profondi incensiD’orti, lungo silenziose vieCinte di palme: mesta di piangentiCampane: soavissima per pieRosee mattine, in vago chiuso aulenteDi viole e di mandorli: solenneE sacra per il tempio che contenne,In faccia al mare, il dio di nostra gente.
Così sognò e sperò, sardi rapsòdi,Il mio cuor rude chiuso sopra l’atroSen della madre mia: pur le melodiIgnorò del mistero ond’ella è sacra.
O fratelli, vorrei esser l’aratroChe morde il seno della tanca e l’acraViscera della rupe, a penetrareTutta l’ombra e le desolazioniChe l’ammantano eterne. O focolareDi porfido spazzato dalla morte,Sepolcri di giganti, alti burroniDegli aspri monti, dove alle risortePrimavere, fremono chiomatiTeschi di mandriani e di banditi:Sparsi nuraghi, e voi, santi granitiDel limite, temuti e venerati, È in voi questo mistero? O ne’ villaggiSepolti nelle valli come in bare?O nei debbi notturni e nei selvaggiValichi, ove urge le spaurite tormeLa bardana dal tacito calzare?Non io lo so: ben so che questa enormeTristezza è sovrumana e ch’è divinoQuesto silenzio, e che mia madre è dea!Sia gloria a lei dal mare al cilestrinoCerchio dei monti. O candidi fratelli,Cinti di gioja, se alcun’ombra reaMai v’aduggi — ché ai nostri cuor rubelliVoi siete come agli orti l’usignolo,Ed all’arso oliveto la cicala,Voci di gioja — in cuor temprate l’ala, A un canto che convien sia forte al volo.
La mia terra cantate. E chi la garaVinca, si avrà in premio un bel poledroChe Osilo domò, Osilo chiaraAltrice e domatrice di cavalli.
E in premio pur si avrà una di cedroCavezza adorna, e una di fior gialliBen oprata bisaccia, valorosiIncliti doni. Ma più preziosoDono è il serto fiorito nei muscosiDirupi d’Ortobene; al vincitoreFanciulla l’offrirà per radiosoOcchio insigne, nel pallido languoreDell’amplesso divina. Ella, sul monte,In vista all’Oleastra e alla Gallura,Oh gloria! Cingerà con l’elce puraAl vincitore la superba fronte.
Monti e cime di Barbagia ricordati nel volume: Bruncuspina — cima sovrana del Gennargentu.
Coràsi — Monte Atha — dalle brulle rupi azzurre.
Gonare — devoto, in vista a tutti i mari.
Montespada — con la sua spada di neve.
Monte Bàrdia — antica guardia contro le scorrerie dei Saraceni.
Montalbo — sasso erto, senza fonti e senza boschi.
Ortobene — monte ad oriente di Nuoro, dalle serene ombrie.
Tanca: campagna incolta, cinta da siepe o muriccia, dove pasturano i branchi nomadi e gli armenti bradi.
Tasca: è lo zaino, per lo più di pelle caprina, tagliato a sacca, dove i pastori ripongono il loro viatico di nomadi.
Frat[r]es: nella parlata di molti villaggi della Barbagia suona come in latino: fratelli; ed anche, come nella leggenda dei tre re, amici e compagni. Nobile traslato che rivela la nobiltà dei ruvidi cuori.
Bardana: corruzione di gualdana, è triste vocabolo che esprime una selvaggia e quasi abitudinaria attitudine dei vecchi sardi pelliti. Non è la razzia, ed è più e meno della rapina.
La casa di San Francesco: è una chiesetta bianca e solitaria, a mezza costa di un’altura di scopa e lentisco, di fronte a Montalbo.
Secondo una leggenda sarda, nella seconda notte di novembre, i morti di Barbagia tor-nano ai loro focolari, mangiano le torte di uva passa e le mele e le pere vernine, e parla-no dei loro amori e dei loro odî! Salto: non è il saltus dei latini. La parola è usata in Sardegna per esprimere la distesa di più tanche ed ovili.
Ditirambo di giovinezzaHutalabì: urlo di gioia selvaggia, col quale il cavaliere barbaricino sprona a corsa sfrenata il caval-lo, animando se stesso di questo frenetico ardore.
Letti elcini: letti fatti con frasche di elce o di quercia (lettu de sida) su cui gli uccisi, come in una lettiga, vengono trasportati alle loro case.
Leppa: coltello lungo e robusto con fodero, fatto per lo più da un tronco di spada. Lo portano alla cintola i pastori della montagna.
La madre dell’ucciso: è la statua (una viva forma di dolore) che schiuse allo scultore Francesco Ciusa le porte dell’Esposizione internazionale di Venezia.
E l’opera gagliarda e nobilissima, è sì una statua, ma è anche un frammento del plastico poema “I Cainiti” col quale il giovine artefice barbaricino si propone di illustrare la vita e mistica e rude e sel-vaggia della nostra Terra.
Sulla punta più alta del Gennargentu (Yanua-Argenti) un ignoto scrisse col minio sacre parole: Bontà, Libertà, W il Socialismo! G. M. Angioi di Bòno: «uomo tanto più vicino alla virtù modesta degli antichi, quanto lontano alla virtù vantatrice dei moderni» come lo chiama Carlo Botta, quando l’uragano della rivoluzione fran-cese scosse le membra della vecchia Europa feudale, maturò nell’animo fiero il ribelle proposito di chiamare alle armi le popolazioni sarde per scuotere il giogo delle prepotenze baronali.
Accolto sulle prime con entusiasmo ed acclamato salvatore della Patria, fu poi abbandonato nell’ul-tim’ora e perseguitato anche dagli antichi suoi amici.
Il poeta canta lo schianto del ribelle esule che, all’ombra del suo sogno infranto, nell’alba del 16 giugno 1796, abbandona la terra che non seppe intenderne il palpito sovrumano, e va a riversare la piena della sua amarezza sotto i cieli di Parigi.
In memoriaGiorgio Asproni: fu pastore, ex canonico, deputato e fu affermatore di ogni idea di libertà.
Nacque in Bitti nel 1809, morì in Roma nel 1879, dove il Comune gli eresse un ricordo marmoreo in Campo Verano.
Fulanu: è parola di origine spagnola: Don Fulanos, e significa Tizio, Caio, ecc. ecc.
Quasi "motti o motteti". Li ho derivati dalla poesia popolare sarda. In essi mi è piaciuto conservare talora le stranezze e di concetto e di verso e di rima, quali graziosamente fio-riscono sulle labbra dei sardi poeti, quasi sempre improvvisatori.
Sùrbili: spiriti erranti sulle montagne di Barbagia nelle notti ventose, vampiri alle culle.
Le preficheÈ il sogno d’una notte d’inverno ed è un canto funebre. Le prefiche della razza piangono sui venti tutto ciò che in terra di Barbagia muore dilegua emigra.
Eremitano, Cani da piatto: li ho derivati dal dialetto, perché mi pare che non vi sia un vocabolo ita-liano che li traduca perfettamente. Eremitanu è voce dialettale che serve a denotare l’uomo misera-bile e infingardo, di vil cuore. Cane de isterju (cane da piatto) è quel cane che negli ovili non sa guardare le capanne e i branchi, e non fa che leccare i mastelli dei latticini: ed è attributo che si dà comunemente ad un uomo vile e dappoco.
Aquila grigia: era un forte e vecchio bandito che sapeva tutte le vie del piano e del monte. Morì mentre un aquilotto, un fanciullo, gli squittiva dappresso: il quale, gridandogli coraggio, cadde con lui negli amari passi della fuga. Era una vecchiezza gioviale: cantava canzoni di guerra, ed era an-che buon compagno di cacciatori e canattieri nelle serene caccie sui monti nuoresi.
Cervo solone: non è l’alces maschilis, ma pure è un gran cervo di cui si va sperdendo la razza sui monti dell’isola. Chi canterà l’elegia alle ultime aquile alle ultime fiere agli ultimi boschi agoniz-zanti sui gioghi della patria? Cani da battagliaIn Ogliastra, presso il piccolo villaggio di Àrzana, era nato il tenente medico Demurtas, ucciso a Sciara-Sciat, mentre medicava i feriti.
Capo Carbonara: ricorda ai sardi il tentativo di sbarco dei francesi, nel marzo 1793, respinto princi-palmente ad opera dei fieri mastini dei pastori. Così almeno la leggenda.
Murrazzànu, Sorgolino, Leone, Traitore (traditore), Caino: comuni appellativi di cani sardi.
La scuola di ChilivàniChilivani è nodo centrale, in aperta campagna, di tutte le ferrovie dell’isola. Un munifico donatore istituì, presso alla stazione, una scuola elementare per i bambini dei ferrovieri e dei casellanti sparsi sulle varie linee. I treni del mattino raccolgono i piccoli alunni che poi, a sera, riportano alle loro case.
MurrazzànuCane famoso, caro a tutti i cacciatori del Nuorese. L’episodio della caccia è vero.
"Cando si — Tenet bentu est prezisu bentulare": "Quando si leva vento occorre trebbia-re". È il ritornello del logudorese inno angioino, al cui canto la Sardegna insorse contro gli ordinamenti feudali. Gli accenni che seguono nei versi riguardano episodi della rivo-luzione.
Àrdia: gara di corse a cavallo.

Source: http://www.poesias.it/poeti/satta_sebastiano/Sebastiano_Satta-Muttos(italiano)/canti_del_salto_e_della_tanca(SSatta)50.pdf

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